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Articolo apparso sul quotidiano
'La Repubblica' del 13 Marzo 2002

Un quartiere, uno scrittore. Mazzucco sulla Boccea Edilizia popolare, palestre di arti marziali e una libreria
Casalotti e una luna zen quiete di un mondo a parte


MELANIA MAZZUCCO


Nel 1983 un mio amico, soprannominato Peppe, ebbe l'idea di aprire un pub. Prese in affitto un locale e organizzò una festa per l'inaugurazione. Ci andai, guidando il mio sputacchiante Boxer lungo la via Boccea, sempre più buia, finché superai il raccordo anulare e un cartello bianco mi indicò che Roma era finita. Ero a Casalotti. L'unico arredo del pub era un maestoso albero di ferro battuto, che arrampicava verso il soffitto decine di scintillanti foglie di rame. Ho perso di vista Peppe molto tempo fa, e perciò - mentre l'autobus 905 affronta gli scoscesi avvallamenti di via Boccea, zigzagando fra i lavori in corso - ignoro se il suo pub esista ancora.
Piazza Ormea è avvolta in una nebbia irreale, dalla quale affiorano finestre e balconi di palazzine evanescenti. Il palo giallo della fermata degli autobus costituisce l'unica macchia di colore. Nonostante l'edicola, il bar, i negozi aperti, sembra un posto deserto. Eppure la borgata Casalotti ha superato i 30.000 abitanti. Mi incuriosisce l'insegna di una libreria, e mi avvicino. È la libreria di Beppe Costa - celebrità del quartiere, benché «immigrato» qui per amore neanche troppo tempo fa. Poeta ed editore, Costa ha tentato di animare le serate di Casalotti, trasformando la sua libreria in un centro culturale: qualche anno fa, poiché la gente preferiva restare a casa a vedere la televisione piuttosto che andare a sentire uno scrittore, ha rinunciato. Adesso vende solo libri: i bestseller di Casalotti sono i manuali scolastici. Mi dice che si sente prigioniero, qui. Mentre parliamo, a un tratto mi rendo conto che sono appoggiata a un albero di ferro battuto, con le foglie di rame. Il pub di Peppe non funzionò, chiuse subito. Nonostante tutto, mi sembra incoraggiante che un pub sia diventato una libreria: di solito succede il contrario.
Benché il quartiere sia cresciuto disordinatamente negli ultimi vent'anni, trasformando una contrada rurale di case sparse in un grumo di cemento, piazza Ormea è stata pensata: al centro c'è un ampio spazio vuoto, lastricato, con qualche panchina. All'estremità, sorte Santa Rita da Cascia, una solida chiesa ottagonale, con un campanile che sembra di legno. È aperta: segno che dentro non c'è nulla da rubare. È deserta. Non c'è neanche il prete cui chiedere quando è stata costruita, e da chi. All'interno, tutt'intorno all'altare ci sono file di sedie ereditate da un cinema, forse il pidocchietto parrocchiale che negli anni Settanta offriva l'unico schermo del quartiere, diventato oggi una farmacia. Salvo due statuine di legno, una piccola croce dorata e l'armadietto delle ostie, non ci sono arredi. L'unico ornamento è costituito da tre affreschi colorati come murales, dipinti sopra l'altare. Quando? Nel 1959, quando la chiesetta venne elevata a vicaria? Negli anni Settanta? Chi lo sa. Questo anonimo frescante contemporaneo non finirà sulle guide, perché le guide non si occuperanno mai di Casalotti.
Il sole ha disperso la nebbia, e piazza Ormea si rivela animata come quella di un paese. Il lastricato è un tappeto di giornali vecchi, stelle filanti, coriandoli. Ho l'impressione di essere arrivata troppo tardi, la festa è finita. Giovani madri dondolano le carrozzine, i figli scorrazzano. Un gruppo di stranieri disoccupati e malvestiti segue la scena con uno sguardo che lascia trasparire una mesta invidia. Anziani pensionati parlottano sulle panchine: carpisco qualche storia. Sono venuti qui negli anni Settanta - tutti dal Sud - e ci sono rimasti perché a Casalotti si sta bene, è un quartiere tranquillo, anche se lontano, tanto che se deve andare in centro la gente dice «vado a Roma». Sottolineano che questa è una periferia benestante. Eppure a Casalotti ci sono anche gli indesiderati. Poco distante, accanto alla scuola elementare c'è una specie di collegio per bambini di famiglie a rischio, o stranieri e senza nessuno: la Fondazione Linda Penotti. C'è un cancello aperto - nel prato antistante razzolano oche e galline. Voci infantili echeggiano di là da un alto muro. C'è una targa, accanto al citofono. Comunica l'orario di visita dei parenti. «Riconsegna minori entro ore 18». L'agghiacciante terminologia burocratica mi scoraggia, come la voce che mi inviata ad andarmene - non sa niente e non ha niente da dire. Nel quartiere circolano storielle poco edificanti su questi bambini, forse nate dalla difficile convivenza fra alunni di una normalissima scuola elementare e ragazzi con storie difficili alle spalle. Però la persona invisibile che custodisce i bambini invisibili dietro l'alto muro mi chiude il cancello automatico in faccia.
Tra le insegne pubblicitarie di palestre di fitness e body building che costellano via Boccea mi colpisce quella del Dojo Tora Khan, a via di Selva Candida, dove si insegna il KarateDo (nella forma tradizionale del GojoRyu di Okinawa) e si tengono sedute di pratica Zen. Il maestro Spongia sta chiudendo. Si medita di prima mattina, fra le sei e le sette, prima che la gente vada a lavorare. Cosa c'entra lo zen con le arti marziali? Le due facce della stessa medaglia si completano a vicenda. A quest'ora il tatami è deserto. Il dojo (in sanscrito bodhi, il luogo del risveglio) è piccolo, circondato di fotografie di allievi e maestri in kimono bianco, ma è una specie di istituzione, perché Spongia ha aperto da ben 16 anni. Indubbiamente un luogo dove si insegna il coraggio, la gentilezza, la generosità, a entrare in relazione con l'energia, a scoprire dentro di sé la saggezza non della mente ma del corpo, ha più futuro e significato di un pub. Al momento è frequentato da circa 70 persone, di cui 35 bambini. Il maestro non cerca di allevare campioni, l'agonismo non gli interessa. Gli piacerebbe formare uomini liberi e completi, essere un maestro per qualcuno, come il maestro Morio Higaonna è stato per lui. Mi spiega che il rapporto fra maestro e discepolo è autentico quando il loro sguardo non è rivolto, semplicemente, l'uno verso l'altro, ma verso un orizzonte comune. Questo è il senso del Do - della via. Gli piacerebbe insegnare il rispetto, la capacità di sviluppare uno spirito indomabile, di vivere insieme e di conoscere se stessi. Gli auguro sinceramente ogni fortuna. Siccome è venuto a Casalotti quando aveva 11 anni, e ne conosce ogni segreto, mi accompagna nell'unico luogo davvero mitico del quartiere, cui la lontananza conferiva un fascino misterioso. In passato, era meta di escursioni e gite domenicali. E ancora adesso la strada che lo raggiunge s'infossa in una sorta di canyon, fra boschi e campagna. Quando la strada finisce, siamo davvero in un altro mondo. È il Castello di Porcareccia, un toponimo molto comune nel Lazio per indicare un luogo dove si allevavano maiali. Accanto al castello, in una piazza di magica quiete, c'è un antico e pittoresco edificio rurale, in parte occupato dal ristorante Maghetto. Mi sembra di aver letto che il Comune progetta di bonificare il fosso sottostante e trasformare la tenuta di Porcareccia in un parco. All'estremità del borgo sorge il ritiro di Santa Gemma, e la piccola chiesa delle Sante Rufina e Seconda. Noto che le chiese di Casalotti sono dedicate a tre sante, e ho la sensazione che l'intero quartiere sia posto sotto il segno delle donne. A questo punto devo assolutamente trovare l'Auxilium.
L'edificio, che sorge al centro di un parco ombreggiato da palme e pini, ricorda una clinica privata (in effetti era una clinica geriatrica). Ma dal portone escono solo ragazze vestite di bianco, grigio e marrone. Sono suore. L'Auxilium è l'unica facoltà pontificia (e non solo pontificia) retta unicamente da donne. 320 studentesse provenienti da più di 40 paesi, di cui un terzo laiche (più vari studenti maschi), studiano Scienze dell'Educazione per diventare insegnanti, psicologi e educatori. Nella bacheca, si annunciano corsi di Teologia dei voti, Teoria e tecnica di analisi psicologica, Antropologia filosofica. Incontro la vice preside - suor Ausilia, coreana - e la ex direttrice, suor Ernestina Marchisa, oggi in pensione. Sono Figlie di Maria Ausiliatrice, salesiane, e perciò votate all'educazione dei giovani. Mi raccontano che la Facoltà fu qui trasferita da Torino nel 1978. Sorridono, quando chiedo se è stato difficile organizzare e tenere viva una istituzione simile. Mi portano a visitare la cappella, le sale di lettura, la biblioteca, piccola ma specializzata. C'è perfino una preziosa copia DWF, la storica rivista del femminismo italiano. Suor Ernestina - che somiglia vagamente a Vanessa Redgrave, gli occhi chiari che spiccano sul nero dell'abito - ha scritto libri e saggi filosofici. Mi racconta, con dispiacere, che le femministe la contestarono quando affermò che il corpo della donna la vota alla maternità: tiene a precisare che non parlava di maternità fisiologica, ma di maternità spirituale - quella che nasce dal dono gratuito di sé, la capacità di aiutare l'altro a crescere come altro da sé. Spero che sappia che oggi le filosofie teorizzano le stesse cose, sulle riviste che la bibliotecaria archivia sugli scaffali. Suor Ausilia avrebbe da illustrarmi le attività con i ragazzini del quartiere e con quelli dei paesi africani, ma non ha tempo: è settimana di esami. Ci tiene però che annoti il motto della facoltà: Siate quel che siete.
Mentre mi avvio - a piedi, perché l'autobus passa con rarità sconcertante - verso Boccea, sfiorata pericolosamente dai camion e dalle macchine che sfrecciano lungo la via priva di marciapiede, ripenso a una massima zen che mi ha donato il sensei Spongia: se siete convinti che conoscersi sia la cosa più importante, non potrete che fare questo per tutta la vita, e ciò la renderà eterna. In un quartiere senza storia e senza identità, dormitorio di individui e destini senza comun denominatore, s'incrociano sorprendenti percorsi intellettuali. Sana e salva, sfuggita perfino all'aggressione di un cane pastore, feroce custode di un gregge di pecore che pascola in uno degli ultimi campi rimasti lungo via Selva Candida, mi concedo una tregua di meditazione nel parco archeologico di Casalotti, un fazzoletto di campagna incastonato fra un traliccio dell'alta tensione e basse palazzine fornite di antenna parabolica. Una passerella di legno sospesa a due metri dal suolo offre una vista aerea sui corridoi e sulle terme di una villa romana del I sec. d.C., scoperta nel 1929 e riportata alla luce nel 1983. La strada asfaltata taglia la villa in due monconi - e la sfigura oscenamente. Lo Zen è «la capacità di porsi in relazione con tutti gli esseri, momento per momento, compresi quelli che apparentemente sembrano inanimati». Evidentemente, gli italiani non lo sanno.
Scende il buio. La libreria di Costa è sempre deserta, e lui è in piedi dietro la cassa a tirare fuori dalle scatole i volumi di Harry Potter. Sfoglio l'opuscolo che mi ha dato il maestro di karate, e mi cade l'occhio su una scheggia zen che sembra dare un senso alla mia giornata presente, e alle mie giornate future. Sta passando il 146, non ho il tempo di dirla a Costa, ma la scrivo per tutti i Costa che mi leggeranno. La scheggia dice: «Scava la pozza senza aspettare la luna. Quando la pozza sarà finita, la luna verrà da sola».

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