Nel
1983 un mio amico, soprannominato Peppe, ebbe l'idea di aprire un pub.
Prese in affitto un locale e organizzò una festa per l'inaugurazione.
Ci andai, guidando il mio sputacchiante Boxer lungo la via Boccea,
sempre più buia, finché superai il raccordo anulare e un cartello
bianco mi indicò che Roma era finita. Ero a Casalotti. L'unico arredo
del pub era un maestoso albero di ferro battuto, che arrampicava verso
il soffitto decine di scintillanti foglie di rame. Ho perso di vista
Peppe molto tempo fa, e perciò - mentre l'autobus 905 affronta gli
scoscesi avvallamenti di via Boccea, zigzagando fra i lavori in corso -
ignoro se il suo pub esista ancora.
Piazza Ormea è avvolta in una nebbia irreale, dalla quale affiorano
finestre e balconi di palazzine evanescenti. Il palo giallo della
fermata degli autobus costituisce l'unica macchia di colore. Nonostante
l'edicola, il bar, i negozi aperti, sembra un posto deserto. Eppure la
borgata Casalotti ha superato i 30.000 abitanti. Mi incuriosisce
l'insegna di una libreria, e mi avvicino. È la libreria di Beppe Costa
- celebrità del quartiere, benché «immigrato» qui per amore neanche
troppo tempo fa. Poeta ed editore, Costa ha tentato di animare le serate
di Casalotti, trasformando la sua libreria in un centro culturale:
qualche anno fa, poiché la gente preferiva restare a casa a vedere la
televisione piuttosto che andare a sentire uno scrittore, ha rinunciato.
Adesso vende solo libri: i bestseller di Casalotti sono i manuali
scolastici. Mi dice che si sente prigioniero, qui. Mentre parliamo, a un
tratto mi rendo conto che sono appoggiata a un albero di ferro battuto,
con le foglie di rame. Il pub di Peppe non funzionò, chiuse subito.
Nonostante tutto, mi sembra incoraggiante che un pub sia diventato una
libreria: di solito succede il contrario.
Benché il quartiere sia cresciuto disordinatamente negli ultimi
vent'anni, trasformando una contrada rurale di case sparse in un grumo
di cemento, piazza Ormea è stata pensata: al centro c'è un ampio
spazio vuoto, lastricato, con qualche panchina. All'estremità, sorte
Santa Rita da Cascia, una solida chiesa ottagonale, con un campanile che
sembra di legno. È aperta: segno che dentro non c'è nulla da rubare.
È deserta. Non c'è neanche il prete cui chiedere quando è stata
costruita, e da chi. All'interno, tutt'intorno all'altare ci sono file
di sedie ereditate da un cinema, forse il pidocchietto parrocchiale che
negli anni Settanta offriva l'unico schermo del quartiere, diventato
oggi una farmacia. Salvo due statuine di legno, una piccola croce dorata
e l'armadietto delle ostie, non ci sono arredi. L'unico ornamento è
costituito da tre affreschi colorati come murales, dipinti sopra
l'altare. Quando? Nel 1959, quando la chiesetta venne elevata a vicaria?
Negli anni Settanta? Chi lo sa. Questo anonimo frescante contemporaneo
non finirà sulle guide, perché le guide non si occuperanno mai di
Casalotti.
Il sole ha disperso la nebbia, e piazza Ormea si rivela animata come
quella di un paese. Il lastricato è un tappeto di giornali vecchi,
stelle filanti, coriandoli. Ho l'impressione di essere arrivata troppo
tardi, la festa è finita. Giovani madri dondolano le carrozzine, i
figli scorrazzano. Un gruppo di stranieri disoccupati e malvestiti segue
la scena con uno sguardo che lascia trasparire una mesta invidia.
Anziani pensionati parlottano sulle panchine: carpisco qualche storia.
Sono venuti qui negli anni Settanta - tutti dal Sud - e ci sono rimasti
perché a Casalotti si sta bene, è un quartiere tranquillo, anche se
lontano, tanto che se deve andare in centro la gente dice «vado a Roma».
Sottolineano che questa è una periferia benestante. Eppure a Casalotti
ci sono anche gli indesiderati. Poco distante, accanto alla scuola
elementare c'è una specie di collegio per bambini di famiglie a
rischio, o stranieri e senza nessuno: la Fondazione Linda Penotti. C'è
un cancello aperto - nel prato antistante razzolano oche e galline. Voci
infantili echeggiano di là da un alto muro. C'è una targa, accanto al
citofono. Comunica l'orario di visita dei parenti. «Riconsegna minori
entro ore 18». L'agghiacciante terminologia burocratica mi scoraggia,
come la voce che mi inviata ad andarmene - non sa niente e non ha niente
da dire. Nel quartiere circolano storielle poco edificanti su questi
bambini, forse nate dalla difficile convivenza fra alunni di una
normalissima scuola elementare e ragazzi con storie difficili alle
spalle. Però la persona invisibile che custodisce i bambini invisibili
dietro l'alto muro mi chiude il cancello automatico in faccia.
Tra le insegne pubblicitarie di palestre di fitness e body building che
costellano via Boccea mi colpisce quella del Dojo Tora Khan, a via di
Selva Candida, dove si insegna il KarateDo (nella forma tradizionale del
GojoRyu di Okinawa) e si tengono sedute di pratica Zen. Il maestro
Spongia sta chiudendo. Si medita di prima mattina, fra le sei e le
sette, prima che la gente vada a lavorare. Cosa c'entra lo zen con le
arti marziali? Le due facce della stessa medaglia si completano a
vicenda. A quest'ora il tatami è deserto. Il dojo (in sanscrito bodhi,
il luogo del risveglio) è piccolo, circondato di fotografie di allievi
e maestri in kimono bianco, ma è una specie di istituzione, perché
Spongia ha aperto da ben 16 anni. Indubbiamente un luogo dove si insegna
il coraggio, la gentilezza, la generosità, a entrare in relazione con
l'energia, a scoprire dentro di sé la saggezza non della mente ma del
corpo, ha più futuro e significato di un pub. Al momento è frequentato
da circa 70 persone, di cui 35 bambini. Il maestro non cerca di allevare
campioni, l'agonismo non gli interessa. Gli piacerebbe formare uomini
liberi e completi, essere un maestro per qualcuno, come il maestro Morio
Higaonna è stato per lui. Mi spiega che il rapporto fra maestro e
discepolo è autentico quando il loro sguardo non è rivolto,
semplicemente, l'uno verso l'altro, ma verso un orizzonte comune. Questo
è il senso del Do - della via. Gli piacerebbe insegnare il rispetto, la
capacità di sviluppare uno spirito indomabile, di vivere insieme e di
conoscere se stessi. Gli auguro sinceramente ogni fortuna. Siccome è
venuto a Casalotti quando aveva 11 anni, e ne conosce ogni segreto, mi
accompagna nell'unico luogo davvero mitico del quartiere, cui la
lontananza conferiva un fascino misterioso. In passato, era meta di
escursioni e gite domenicali. E ancora adesso la strada che lo raggiunge
s'infossa in una sorta di canyon, fra boschi e campagna. Quando la
strada finisce, siamo davvero in un altro mondo. È il Castello di
Porcareccia, un toponimo molto comune nel Lazio per indicare un luogo
dove si allevavano maiali. Accanto al castello, in una piazza di magica
quiete, c'è un antico e pittoresco edificio rurale, in parte occupato
dal ristorante Maghetto. Mi sembra di aver letto che il Comune progetta
di bonificare il fosso sottostante e trasformare la tenuta di
Porcareccia in un parco. All'estremità del borgo sorge il ritiro di
Santa Gemma, e la piccola chiesa delle Sante Rufina e Seconda. Noto che
le chiese di Casalotti sono dedicate a tre sante, e ho la sensazione che
l'intero quartiere sia posto sotto il segno delle donne. A questo punto
devo assolutamente trovare l'Auxilium.
L'edificio, che sorge al centro di un parco ombreggiato da palme e pini,
ricorda una clinica privata (in effetti era una clinica geriatrica). Ma
dal portone escono solo ragazze vestite di bianco, grigio e marrone.
Sono suore. L'Auxilium è l'unica facoltà pontificia (e non solo
pontificia) retta unicamente da donne. 320 studentesse provenienti da più
di 40 paesi, di cui un terzo laiche (più vari studenti maschi),
studiano Scienze dell'Educazione per diventare insegnanti, psicologi e
educatori. Nella bacheca, si annunciano corsi di Teologia dei voti,
Teoria e tecnica di analisi psicologica, Antropologia filosofica.
Incontro la vice preside - suor Ausilia, coreana - e la ex direttrice,
suor Ernestina Marchisa, oggi in pensione. Sono Figlie di Maria
Ausiliatrice, salesiane, e perciò votate all'educazione dei giovani. Mi
raccontano che la Facoltà fu qui trasferita da Torino nel 1978.
Sorridono, quando chiedo se è stato difficile organizzare e tenere viva
una istituzione simile. Mi portano a visitare la cappella, le sale di
lettura, la biblioteca, piccola ma specializzata. C'è perfino una
preziosa copia DWF, la storica rivista del femminismo italiano. Suor
Ernestina - che somiglia vagamente a Vanessa Redgrave, gli occhi chiari
che spiccano sul nero dell'abito - ha scritto libri e saggi filosofici.
Mi racconta, con dispiacere, che le femministe la contestarono quando
affermò che il corpo della donna la vota alla maternità: tiene a
precisare che non parlava di maternità fisiologica, ma di maternità
spirituale - quella che nasce dal dono gratuito di sé, la capacità di
aiutare l'altro a crescere come altro da sé. Spero che sappia che oggi
le filosofie teorizzano le stesse cose, sulle riviste che la
bibliotecaria archivia sugli scaffali. Suor Ausilia avrebbe da
illustrarmi le attività con i ragazzini del quartiere e con quelli dei
paesi africani, ma non ha tempo: è settimana di esami. Ci tiene però
che annoti il motto della facoltà: Siate quel che siete.
Mentre mi avvio - a piedi, perché l'autobus passa con rarità
sconcertante - verso Boccea, sfiorata pericolosamente dai camion e dalle
macchine che sfrecciano lungo la via priva di marciapiede, ripenso a una
massima zen che mi ha donato il sensei Spongia: se siete convinti che
conoscersi sia la cosa più importante, non potrete che fare questo per
tutta la vita, e ciò la renderà eterna. In un quartiere senza storia e
senza identità, dormitorio di individui e destini senza comun
denominatore, s'incrociano sorprendenti percorsi intellettuali. Sana e
salva, sfuggita perfino all'aggressione di un cane pastore, feroce
custode di un gregge di pecore che pascola in uno degli ultimi campi
rimasti lungo via Selva Candida, mi concedo una tregua di meditazione
nel parco archeologico di Casalotti, un fazzoletto di campagna
incastonato fra un traliccio dell'alta tensione e basse palazzine
fornite di antenna parabolica. Una passerella di legno sospesa a due
metri dal suolo offre una vista aerea sui corridoi e sulle terme di una
villa romana del I sec. d.C., scoperta nel 1929 e riportata alla luce
nel 1983. La strada asfaltata taglia la villa in due monconi - e la
sfigura oscenamente. Lo Zen è «la capacità di porsi in relazione con
tutti gli esseri, momento per momento, compresi quelli che
apparentemente sembrano inanimati». Evidentemente, gli italiani non lo
sanno.
Scende il buio. La libreria di Costa è sempre deserta, e lui è in
piedi dietro la cassa a tirare fuori dalle scatole i volumi di Harry
Potter. Sfoglio l'opuscolo che mi ha dato il maestro di karate, e mi
cade l'occhio su una scheggia zen che sembra dare un senso alla mia
giornata presente, e alle mie giornate future. Sta passando il 146, non
ho il tempo di dirla a Costa, ma la scrivo per tutti i Costa che mi
leggeranno. La scheggia dice: «Scava la pozza senza aspettare la luna.
Quando la pozza sarà finita, la luna verrà da sola». |