Buonasera,
innanzitutto desidero
esprimere il ringraziamento a nome della Comunità del
Monastero Zen Soto Fudenji di Salsomaggiore per l’invito
a prendere parte a questo interessante convegno.
A titolo
personale sono molto onorato di rappresentare Fudenji in
questa preziosa occasione, ho accolto l’invito a partecipare
con entusiasmo perché ritengo questa per me un’occasione
straordinaria per imparare dall’esperienza di tutti
voi.
Ringrazio in modo particolare
la Madre Badessa, Madre Cristina, per la calda accoglienza
che mi ha offerto e Padre Carini, sempre vicino a Fudenji.
Sono rimasto molto colpito dalla determinazione e dal coraggio
della Madre Badessa e delle sue consorelle e quando questa
mattina Madre Cristina ci ha raccontato del momento in cui
le suore di S.Andrea nutrivano i bambini di Arpino tendendo
il braccio attraverso le grate della clausura, ecco, immediatamente
ho visto il loro braccio caritatevole tendersi all’infinito e dalle
grate della clausura nutrire la fede di un paese lontano
fondando un Monastero in Romania.
Questa mattina ho preso
parte al canto delle lodi insieme alle suore di S.Andrea,
nella bellissima cappella per gli ospiti, e questo canto
corale, questo respiro condiviso, in cui le voci si uniscono
e si confondono nel celebrare il ringraziamento alla vita,
esprime con potenza l’autentica comunione dell’esperienza
religiosa.
Come ha detto stamane Madre
Cristina: ‘non
si dialoga con le parole, con le ideologie’ e, mi sento
di aggiungere, il vero dialogo nasce proprio dall’esperienza
condivisa che abbatte alle fondamenta le sovrastrutture concettuali
che costruiamo sopra l’elementare esperienza della
meraviglia e gratitudine di fronte al mistero. Per rendere
onore all’occasione che mi è stata offerta farò del
mio meglio per esprimere degnamente la mia seppur povera
esperienza.
Mi chiamo Paolo Taigo Spongia
e seguo l’Insegnamento
del Maestro F. Taiten Guareschi, Abate di Fudenji, da 15
anni.
Dopo dieci anni di discepolato laico sono stato ordinato
novizio nel 2002. Sono sposato, ho due bambini e vivo a Roma
insegnando arti marziali nella scuola che ho fondato 20 anni
fa, il Tora Kan Dojo, che da più di dieci anni è anche
Dojo Zen e vi si svolge una pratica regolare che conduco
su incarico del mio Insegnante.
Essere qui ad Arpino è per
me, oggi, motivo di profonda commozione.
Non lontano da qui,
a Montelungo, presso Montecassino, dove domani vi recherete
in pellegrinaggio, è morto il 7 Dicembre del 1943
mio zio Alfredo, ventenne bersagliere del LI° Battaglione,
la presenza/assenza di mio zio è stata significativa
nella mia vita e proprio pochi mesi or sono ho scoperto,
su di un sito internet dedicato alla Battaglia di Montecassino,
che Alfredo detiene il triste primato di essere stato il
primo a cadere in quel terribile giorno.
Ma veniamo al tema
della nostra riunione.
“…è grazie
all’esercizio
quotidiano che il sole, la luna e le stelle si muovono e
che esistono la terra e il vasto spazio…” (1)
E’ difficile,
oggi, poter parlare di lavoro in una società in cui
il lavoro è necessariamente legato alla retribuzione.
Si lavora per guadagnare denaro e, di conseguenza, se si
si vincesse alla lotteria si smetterebbe volentieri di lavorare.
Dal lavoro si tenta di rimuovere ogni disagio, ogni sforzo,
il lavoro manuale da tempo è declassato al punto che
lo studio sembra essere diventato occasione per eludere ogni
genere di manualità.
Anche l’art. 1 della nostra
Costituzione che cita: “L’Italia è una
repubblica democratica fondata sul lavoro” è stato
tradito dalla prassi che vede una tassazione ben più elevata
nei confronti della rendita dal lavoro artigianale o comunque
a carico del lavoratore piuttosto che nei confronti del lucro
generato dal gioco in borsa.
La speculazione
sembra aver assunto, per lo Stato, maggiore dignità del
lavoro. Questo non ha nulla a che vedere con quel ‘lavoro’ di
cui siamo riuniti in questa sede a parlare. Ritengo pertanto
che il modello del lavoro nelle comunità monastiche
possa oggi costituire un sicuro riferimento, per gli uomini
del XXI secolo, per riscoprire il significato profondo, autentico,
di quest’azione umana definita lavoro.
Al tempo del
Buddha storico, ai monaci era fatto divieto di procurarsi
di che vivere attraverso il lavoro, la questua (2) era
l’unico
mezzo di sussistenza ammesso e praticato.
Questuando, i monaci
potevano accettare soltanto offerte di cibo e non denaro.
Il Buddha con i suoi discepoli percorreva le strade dei
villaggi fermandosi davanti ad ogni porta senza discriminare
tra abitazioni ricche o povere, offrendo così a
tutti, indistintamente, l’occasione di praticare
il dono, la generosità,
una delle sei Paramita (3),
delle sei Perfezioni.
La questua
non era pertanto solo mezzo di sussistenza ma potente occasione
di redenzione.
Le strofe che il monaco recita
durante la questua possono essere così riassunte:
“L’offerta
materiale e l’offerta spirituale (Dharma) sono entrambe
fonte di meriti, non l’una all’altra superiore
nella perfezione del Dono”. (4)
Colui che offre e
colui che riceve non possono dirsi separati e indipendenti.
La vita è dono, e ci sostiene sempre e comunque, a
prescindere dal nostro affanno e dalla nostra brama.
Terminata
la questua, i monaci si riunivano per condividere quel che
era stato loro offerto e, se avanzava del cibo, non veniva
conservato per il giorno dopo ma dato agli animali o a chi
ne avesse bisogno, come a dire: ‘ad ogni giorno bastava
il proprio affanno’.
Già allora, nello spirito
che animava la pratica della questua, era insito il profondo
significato del lavoro.
Il lavoro come occasione di praticare
il Dono, l’offerta di sè.
Attività non
strumentale in cui i rapporti di causalità si estendono
dal determinismo causale ad una causalità complessiva
chiamata ‘Originazione
Dipendente’. (5)
Esemplare, a riguardo è il
Sutra: (6)
Upasaka-vagga, II,1.Kasi-Bharadvaja (7)
‘Una
volta il Sublime dimorava fra i Māgadha, sul monte
Dakkhinā, presso il villaggio brāhmana di
Ekanālā.
In quella circostanza, giunto il tempo della semina, cinquecento
aratri del brāhmana Kasi-Bhāradvāja erano
stati aggiogati. Allora il Sublime, vestitosi per tempo,
prese manto e ciotola e andò la
dove si svolgeva il lavoro. In quel momento Kasi-Bhāradvāja stava procedendo alla distribuzione del cibo. Il Sublime
si avvicinò e sostò da parte. Il brāhmana lo
vide in attesa per la questua e gli disse:
"Asceta,
io aro e semino; dopo, mangio.
Ara e semina anche tu, e mangia
dopo aver arato e seminato!".
"Ma anch'io, brāhmana,
aro e semino, e dopo aver arato e seminato, mangio!"
"Che
dici? Noi non vediamo né il giogo, né l'aratro,
né il vomere, né il pungolo né i buoi
del venerabile Gotama. Qual è dunque la tua coltura?"
"La
fede è il seme, l'ascesi è la pioggia, la sapienza
il mio giogo e il mio aratro, il ritegno il timone, la mente
la cinghia del giogo, la chiara visione il mio vomere e pungolo.
Vigile il corpo e la parola, moderato nel ventre, col vero
m'adopro alla mietitura e con la pazienza alla liberazione.
L'energia è il bove aggiogato che mi conduce alla
perfetta quiete, che va, senza ritorno, là dove giunti
più non si è afflitti. E' questa una coltura
il cui raccolto è la Liberazione. Chi ara questo campo
si libera da ogni dolore".
Allora il brāhmana Kasi-Bhāradvāja porse al Sublime una capace ciotola di riso bollito nel latte,
dicendo:
"Mangi dunque il venerabile Gotama, poiché egli è agricoltore
e pratica una coltura il cui frutto è il Nirvana,
la Liberazione !" "Io non posso mangiare ciò che è mercede
per dei versi. Altro cibo, altra bevanda offri al Compiuto
che ha placato gli affanni e la brama ha estinto. Questo è il
campo virtuoso di chi mira al proprio bene".
"E
a chi darò io, Signore, questo cibo?"
"Invero
non vedo, brāhmana, in questo mondo di uomini e di dèi,
chi potrebbe digerirlo, al di fuori del Tathagata o di un
suo discepolo. Perciò immergilo in acqua dove non
viva creatura alcuna".
Così fece il brāhmana,
e quel riso nell'acqua sfrigolò e fumigò come
una sbarra di ferro rovente. Allora si prosternò il
brāhmana ai piedi del Buddha; fu ammesso nell'Ordine
e non lungi nel tempo fu uno degli Arhat.’(8)
Il Buddha si
astiene dalla ‘mercede’, da un nutrimento macchiato
dalla strumentalità. Fa comprendere al Brahmana che è proprio
la gratuità a santificare il lavoro, a renderlo degno
dell’uomo, e il nutrimento che ne può derivare
non ha nulla a che vedere con il lavoro in sè.
La
gratuità allude con chiarezza alla dimensione trascendente.
Il fondamento della vita, quel che sostiene, sempre e comunque,
non annulla ma risignifica il nostro sforzo e la nostra preoccupazione.
Così come non si mangia solo per sfamarsi, non si
opera per la retribuzione.
...Liberarsi dal lavoro
asservito al profitto. Il lavoro è dove si entra
nella complessissima relazione tra causa ed effetto. Il
mio Insegnante parlava di "spazio di non conoscenza",
uno spazio in cui la causa non conosce l' effetto quanto
l'effetto non conosce la causa. Questo spazio di non conoscenza –spazio
contemplativo, silenzio adorante- è il luogo dove
dimora la libertà dello
spirito.” (9)
Quando il Buddhismo arriva
in Cina deve intervenire una sensibile trasformazione. Vivere
di questua si avvera assai impopolare.
Le Comunità che
faranno dell’autosufficienza
una caratteristica dominante avranno maggiore occasione di
sopravvivere alle persecuzioni. Alla questua si aggiunge
dunque il lavoro manuale, vissuto nello stesso spirito della
questua.
Il Maestro Hyakujo Ekai (720-814)
quando era già piuttosto
anziano, aveva circa novant’anni, continuava a lavorare
nei campi del Monastero.
I suoi monaci temendo per la sua
salute un giorno gli nascosero i suoi strumenti di lavoro
per evitare che il loro Maestro lavorasse duramente sotto
il sole cocente.
Non riuscendo a trovare i propri utensili,
Hyakujo rifiutò di mangiare.
Quando i monaci lo supplicarono
di nutrirsi il Maestro rispose con l’affermazione rimasta
famosa nella tradizione Zen: “Un giorno senza lavoro è un
giorno senza mangiare ”.
I monaci non ebbero scelta
e restituirono a Hyakujo i suoi strumenti.
Al novizio, nel
monastero cinese, fino a tempi recenti, veniva insegnato
a coltivare il riso, raccoglierlo e cucinarlo; solo in un
secondo tempo, come naturale conseguenza era invitato a sedere
in Zazen (l’esercizio contemplativo come postura e
dimensione dello spirito al di là della postura stessa).
Il Samu, termine che nello
Zen definisce il lavoro manuale, assume da questo momento
la stessa dignità dello Zazen.
“E’ nel ‘far
corpo’ nel lavoro ordinario, non per una medaglia,
neanche per un grazie, da questo ‘fare corpo’ è facile
che nasca lo spirito della Comunità, il Sangha (10),
allora sedere in Zazen insieme diventa la cosa più naturale
del mondo”. (11)
E’ l’aspetto politico, fondativo,
istituzionale del lavoro.
Il lavoro sapiente fonda la comunità dei
fratelli, degli Uguali.
E’ difficile poter parlare
di eguaglianza e fraternità senza operosità.
Cito ancora il mio Insegnante,
il Maestro Guareschi:
“...
Dalla percezione diretta, intuitiva
e spontanea della realtà deriva
un'azione diretta e spontanea, senza che il pensiero strumentale
e concettuale si interponga fra percezione e azione.
Cadono
le separazioni tra lo spirituale e il mondano, e diviene
consapevolezza del sacro nell'ordinario.
Il lavoro è arte
della vita, un'espressione integrata di essere e di fare
che lo Zen definisce come: ‘il modo infinito di fare
cose finite’. Il lavoro è una celebrazione del
mistero della vita.” (12)
Il Nirvan (13), la
Liberazione, non può darsi al di fuori del Samsara (14),
al di fuori della condizione umana del nascere/morire. Il
lavoro come celebrazione del mistero della vita: il lavoro
come rito, liturgia.
La
vita regolata di un monastero Zen comporta che ogni azione,
anche quella più apparentemente privata, sia consacrata
a beneficio di tutte le esistenze (Togan
Shujo), rinunciando
al frutto, al merito, che ne possa derivare.
Così quando
riceviamo il cibo recitiamo:
“Innumerevoli
opere e fatiche ci han portato questo cibo: la virtù e l’esercizio
nostri son forse degni di questo dono?”
Ad ogni pasto
ricordiamo così a noi stessi quanto sforzo, quante
esistenze hanno con la loro azione fatto sì che oggi,
nel nostro piatto, sia potuto giungere questo cibo.
Ricordiamo
che ben 75 azioni, umane e degli elementi della natura, fanno
sì che un solo chicco di riso possa oggi essere per
noi nutrimento.
E, nel considerare questo sforzo generoso,
osserviamo alla nostra vita e ci chiediamo se il nostro impegno,
la nostra virtù sono degni di tale generosa offerta.
Quando laviamo il viso, andiamo
in bagno, puliamo un pavimento, recitiamo delle strofe, dette
gatha, che ci ricordano che nessuna azione è un’azione ‘privata’,
ma che ogni gesto, anche quello apparentemente più insignificante
e nascosto ha un riverbero universale.
Lavando le mani recitiamo
le strofe:
“Così come
noi, ora, purifichiamo le nostre mani, possano tutte le
esistenze avere mani tanto delicate per custodire e mantenere
la Verità dei Buddha”.
Prima
di lavare i denti recitiamo:
“Così come noi
laviamo i denti questa mattina, possano tutte le esistenze
ottenere l’occhio/dente della saggezza che mastica
l’illusione”.
Nel nostro esercizio, la mente
dello Zazen va trasposta all’azione quotidiana al punto
che scompaia il confine tra sacro e mondano, tra pratica
contemplativa ed azione, che a sua volta diviene azione contemplativa.
Il gesto permette di cogliere l’invisibile nel visibile.
Anche quando
andiamo in bagno, dice Dogen Zenji (15), la nostra
postura, il modo con cui utilizziamo gli oggetti è salvifico.
Il lavoro, samu, assume pertanto la stessa dignità ed
efficacia dello Zazen.
Il termine samu può essere
tradotto con ‘fare il proprio dovere’.
Dovere
al quale si è tenuti e dal quale si è tenuti.
Dovere è anche una traduzione del termine sanscrito
Dharma che vuol dire molte cose: verità,
metodo, arte... (16).
Quindi potremmo liberamente tradurre ‘samu’ con: ‘Esprimere
il Dharma attraverso la propria azione’. Il lavoro
comune diviene anche, nella tradizione Zen, l’occasione
della trasmissione della comprensione più profonda
dell’Insegnamento del Buddha.
E la comunione del lavoro
(Fushin Samu) è di capitale importanza.
Si tratta
di un lavoro non solipsistico, un lavoro che non si fa da
soli.
Proprio l’opposto del ‘self
made man’ modello
così in voga oggi, nella nostra società.
Lo
si sta riscoprendo anche in ambito di formazione manageriale
dopo aver constatato il fallimento del modello del manager ‘superman’ che
basta a se stesso.
Come nella Comunità monastica,
chi conduce può condurre solo se è intimamente
al servizio, e chi serve, per poter servire degnamente, deve
acquisire la regalità e il carattere di chi conduce.
Proprio come il ragazzo di
bottega raggiunge la maestria, inconsciamente, lavorando
col maestro artigiano ed imitando la sua azione, così il
novizio raggiunge la maestria dello spirito lavorando a stretto
contatto col proprio maestro.
“Di
cosa discutevate ?”, chiede il Maestro.
“Di come
finanziare i lavori di edificazione del monastero”,
qualcuno risponde. “Non perdete tempo a discutere.
Raccogliete le foglie, pulite le scale, bruciate incenso.
Solo così arriveranno le offerte per costruire il
Tempio.” (17)
Il Maestro ci ricorda in tal
modo la gratuità dello
sforzo che deve animare la nostra azione, uno sforzo gioioso
che si fonda sulla fede di essere sempre e comunque sostenuti
dalla Grande Terra e che già l’operare contiene
in sè il risultato dell’azione.
All’agire
totale, al gesto che si consuma fino in fondo (Ippo
Gujin),
il risultato segue come l’ombra il passo:
‘Scava
la pozza senza aspettare la luna, quando la pozza sarà terminata
la luna verrà da sè ’, è un detto
Zen.
Sullo stesso piano stanno pertanto
la giusta aspirazione (Hōsshin), l’esecuzione
(Shugyō), il risultato (Bodai)
nonché la liberazione dagli effetti del risultato
(Nirvana).
E tanto importante è l’operare quanto
importante è il distaccarsi dal risultato del proprio
agire, disfarsi dei suoi residui, svincolarsi anche dall’autocompiacimento
del buon risultato. L’azione donata alla vita come
servizio.
Questa mattina Suor Antonietta, del Monastero di
S. Scolastica, con la quale ho avuto gioiosa occasione di
conversazione, nel suo intervento ha illustrato bene come
l’abilità specifica, in una qualsiasi attività lavorativa,
non deve divenire occasione per il monaco di orgoglio e autocompiacimento.
Al punto che se questo accade alla monaca viene affidato
incarico agli antipodi della propria specifica attitudine
proteggendola così da questa pericolosa deriva.
Le
foglie che raccogliamo non sono dunque solo raccolte per
fare più pulito il cortile, bensì, dalle parole
di un Maestro Zen:
‘Le
foglie non cadono solamente sulla terra, ma anche nella
nostra mente. Io raccolgo le une e le altre’.
Un aneddoto citato nel testo ‘da
Studente a Maestro’ di Soko Morinaga Roshi illustra
bene la trasmissione spirituale attraverso il lavoro comune:
Un novizio si trova per
la prima volta a lavorare nel parco col proprio insegnante
che gli dà l’incarico
di ripulire il giardino. Entrambi si accingono a spazzare.
Il novizio lavora alacremente, anche nell’intento di
fare buona figura col suo Maestro e ammucchia una gran quantità di
foglie.
Va dal Maestro e chiede:
‘Dove posso buttare
questa spazzatura ?’
Il Maestro va su tutte le furie:
‘Non
c’è spazzatura !!’ (18) risponde
tuonando.
“Se
non c'è spazzatura, che cos'è questa? Dove
devo gettare queste foglie ?”, obietta il discepolo.
“Non
devi gettarle!”, ruggisce ancora il Maestro e gli dice
di metterle in un sacco, serviranno per accendere il fuoco
che riscalderà l’acqua.
Quando il novizio torna
col sacco trova il Maestro intento a dividere il mucchio
di foglie in modo da separare le foglie dalle pietre.
Mette
le foglie nel sacco, che dà al novizio perché lo
porti nel magazzino. L’allievo comincia a comprendere
che quelle foglie non erano poi spazzatura, ma continua a
ritenere che quel che è rimasto senz’altro lo
sia.
Quando ritorna trova il Maestro ancora accovacciato
sul mucchio a raccogliere le pietre, che dà all’allievo
dicendogli di metterle sotto le grondaie nei buchi scavati
dall’acqua.
Mentre si adopera a farlo, l’allievo
vede non solo che anche le pietre non sono spazzatura, ma
anche che il risultato ha un certo valore estetico.
Il Maestro
intanto, mentre con gli ultimi rimasugli del mucchio riempie
avvallamenti e buchi del terreno, così conclude: “Allora?
Adesso capisci qualcosa di più? Fin dall'inizio, nelle
persone e nelle cose, non esiste spazzatura.” (19)
.Il Buddha operoso, Gyō Butsu,
rappresenta un riferimento centrale nella nostra tradizione
Zen Sōtō, coniugando l’eternità del
Buddha e il suo essere storico.
La vita e l’Insegnamento
di Dogen Zenji (1200-1253), capostipite del nostro Ordine,
sono fondati su due pilastri fondamentali: l’operosità (Gyōji 20)
e la sapienza intuitiva che scaturisce dall’azione
(Dōtoku 21).
In Dogen dunque Gyōji e Dōtoku,
le due dimensioni dell’essere Buddha, non sono separate.
In questi anni a Fudenji si stanno portando avanti i lavori
di ampliamento ed edificazione del Monastero.
L’Abate
di Fudenji, il Maestro Guareschi, è in prima linea
nel lavorare gomito a gomito con gli operai.
Questi conoscevano
già Fudenji
per la pratica religiosa che vi si svolge e conoscevano il
Maestro per il suo carisma di Insegnante Zen, ma, lavorando
in Fudenji, hanno potuto constatare direttamente l’operosità creativa
del Maestro che, con le sue abilità di fabbro e falegname,
ha contribuito a risolvere numerosi problemi operativi.
La
loro constatazione è stata: “Non sa solo parlar
bene ma anche lavorare bene” ed hanno cominciato a
chiamarlo Maestro.
E’ molto interessante
osservare che il termine Gyōji è composto
da due caratteri: Gyō: che
rappresenta il muoversi, il camminare, l’agire,
e Ji: in
cui è presente il radicale ‘mano’ che
significa ‘mantenere’, ed anche ‘imparare,
per preservare esattamente’.
Dall’analisi dei
caratteri che compongono il termine si evince chiaramente
come Gyoji, questo esercizio ininterrotto, questa ascesi
perpetua, riguardi la corporeità, un’azione
che diviene conoscenza, memoria.
E si tratta di una memoria
delle cellule, che può essere solo memoria corale,
condivisa. Gli stessi Canoni scritturali hanno avuto origine
da questa memoria corale e corporea.
Si tratta di un ‘vedere’ attraverso
il corpo.
Il Bodhisattva Avalokitesvara (22), manifestazione
dell’amore e della pietà di Buddha, è rappresentato
con mille braccia protese in tutte le direzioni per portare
aiuto alle innumerevoli esistenze, ed in ogni mano è rappresentato
un occhio. Senza saper ‘vedere’,
senza saggezza (Prajña) nessuna azione potrà essere
veramente compassionevole (Karuna) ed efficace.
Visione ed
azione devono procedere simultaneamente.
Dogen Zenji
parla di Gyōji Dōkan:
esercizio incessante fondato sull’azione ripetuta che è ‘Anello
della Via’, e che fa del cammino, della strada, non
solo una ripetizione ma una ri/creazione.
In realtà Dōkan più che un cerchio che si chiude su se stesso, rappresenta
un andamento a spirale.
La ripetizione, nell’esercizio,
va interpretata nel senso di una ‘spiralità spirituale’,
un’azione che, pur ripetendosi apparentemente uguale
a se stessa, non coincide con se stessa, e il collegamento
tra le azioni non è ovvio né sequenziale, ma,
collegandosi la prospettiva teleologica a quella ciclica,
si ha un andamento a spirale, al punto che ad ogni ripetizione
lo spirito è rinnovato, nell’ineludibile mistero.
L’operosità Zen è estremamente creativa
ma questa creatività scaturisce proprio, inconsciamente
ed automaticamente dalla vita regolare, ordinata.
“…La
ripetizione rituale, ciò che esalta la forma e l’ordine è,
dunque, la protezione che consente di attraversare il sacro
in quanto crisi, ma al tempo stesso è ciò che
lo imbriglia e lo doma…ma la ripetizione rituale ha
anch’essa una doppia facciata: da un lato è ordine
e ritmo, ritorno all’identico; dall’altro può giungere
alla soglia critica di un cambiamento di stato…Nella
ripetizione c’è questa doppia potenzialità:
di stabilità e di trasformazione.” (23)
La vita ordinata,
regolare, nel monastero Zen rispetta un ritmo quinario.
I
giorni che contengono il 4 (Shi) e il 9 (Ku)
sono dedicati alle necessità personali ma, anche in
questi giorni, lo spirito del dono può essere coltivato
attraverso un’azione segreta (Intoku 24),
che esula dalle proprie specifiche responsabilità,
a beneficio di altri.
Nella
vita di Dogen Zenji è proprio l’incontro con
il lavoro dei monaci cinesi che, in qualche modo, illumina
la sua comprensione e gli indica il cammino da compiere.
Poco più che ventenne, insoddisfatto dalla realtà del
Buddhismo del suo tempo, il giovane Dogen parte alla volta
della Cina per approfondire la sua insaziabile ricerca religiosa.
Dopo una lunga ed insidiosa navigazione, è costretto
a rimanere a bordo della nave nel porto cinese per diverse
settimane e in questo periodo avviene il primo incontro determinante
con il lavoro.
Su quella
nave giunse un vecchio monaco cinese per comprare degli shiitake giapponesi
(una qualità di
funghi per minestre).
Era il responsabile della cucina (Tenzo)
al monastero sul monte Ayuwang, a notevole distanza dal quel
luogo.
I due cominciarono a conversare piacevolmente e quando
il monaco si accinse a tornare al Monastero, Dogen Zenji
insistette perché rimanesse a dormire sulla nave,
nella speranza di approfondire la conversazione.
Il monaco
declinò l’offerta affermando l’urgenza
di ripartire per preparare il pasto per i monaci.
Dogen Zenji
obiettò che qualcun altro poteva svolgere quel compito
al suo posto.
L’anziano monaco rispose:
“La ragione
per cui, alla mia età, sono ancora il responsabile
delle cucine è che considero questo incarico come
la pratica della Via (bendō) per tutto il resto
della mia vita. Come potrei lasciare la mia pratica ad altri?
E poi, non ho il permesso di rimanere fuori”.
Dogen ancora
non comprese ed insistette:
“Come mai voi, in età così avanzata,
vi trovate ad essere impegnato in un compito faticoso come
quello del responsabile delle cucine, invece di occuparvi
della pratica dello zazen o di leggere gli insegnamenti degli
antichi maestri?”.
A questa domanda, il vecchio monaco
scoppiò in una gran risata, dicendo:
“Voi, giovane
di un paese straniero, forse non capite che cos’è la
pratica della Via…”.
La risposta colpi profondamente
Dogen Zenji.
Qualche mese dopo egli avrà un secondo
incontro con l’anziano Tenzo.
I due incontri con il
vecchio capocuoco influenzarono profondamente la sua vita
e la sua opera.
Un altro incontro determinante con il lavoro
dei monaci avvenne quando Dogen Zenji fu ammesso alla pratica
nel Monastero sul monte Tendo:
Attraversando un cortile del
Tempio, vide un monaco molto anziano, anch’egli responsabile
della cucina, che stava mettendo dei funghi a seccare al
sole.
Sotto un sole bruciante, andava e veniva, grondante
di sudore, riversando tutte le sue energie nel lavoro.
Dogen
Zenji gli chiese da quanti anni vivesse al monastero ed il
vecchio monaco rispose ‘Sessantotto anni’.
‘Perché non
ti servi di un assistente?’
‘Un altro non è me’ rispose
l’anziano Tenzo.
‘Ma oggi il sole brucia così tanto,
perché non lo fai in un altro momento ?’
‘ C’è forse
un altro tempo da attendere ?’
Ancora una volta le
parole di un monaco, intento al suo lavoro, hanno un effetto
deflagrante nel cuore di Dogen Zenji.
Una volta rientrato
in Giappone Dogen Zenji scriverà la monumentale opera
dello Shōbōgenzō e, dopo aver fondato
il Tempio di Eiheiji, scriverà l’ ‘Eihei
Shingi’, la Regola.
In quest’opera Dogen Zenji definisce le funzioni dei
responsabili del Monastero (25), chiarendo come
ogni funzione sia strettamente attinente all’esercizio
religioso, aspirazione e spirito di conversione. Il primo
capitolo, intitolato Tenzo Kyokun, sarà dedicato al
lavoro del Tenzo, il responsabile della cucina, forse anche
in memoria dei suoi determinanti incontri con i responsabili
delle cucine dei monasteri cinesi.
Nel Tenzo
Kyokun Dogen Zenji
afferma:
"Questo compito è stato
sempre svolto da maestri radicati nella Via e da altri
che avevano risvegliato in sè lo
spirito del Bodhisattva (26). Una tale pratica richiede
l’esaurimento
di tutte le vostre energie" (Bendo: riversare
tutte le proprie energie nella ricerca della Via del Buddha). (27)
E ancora:
“Il
Tenzo deve maneggiare gli ingredienti con cura come se fossero
i suoi stessi occhi… dovrebbe utilizzare tutto il
cibo che riceve con rispetto, come se dovesse servire il
pranzo dell’imperatore…”
In tutto l’Eihei
Shingi Dogen Zenji esprime le qualità che devono animare
l’opera di ogni responsabile nel Monastero.
A prescindere
dal tipo di attività a cui si è preposti, una ‘Mente
gioiosa e materna’ (Kishin) deve essere alla base della
propria opera.
Nel Tenzo Kyokun definisce la Grande Mente,
la Mente dei Genitori e la Mente Gioiosa, come le Tre Menti
che devono riflettersi nel nostro modo di svolgere il lavoro.
“…Non
dovete lasciare agli altri il compito di lavare il riso o
la preparazione delle verdure, ma dovete compierlo con le
vostre mani. Concentrate tutta la vostra attenzione sul lavoro,
vedendo solo quello che richiede la situazione. Non siate
distratti nelle vostre attività, né tanto assorbiti
da un unico aspetto da trascurare gli altri. Non lasciatevi
sfuggire una goccia dell’oceano di virtù (affidando
il lavoro ad altri)…”
“…fin dai
tempi più remoti, i maestri più grandi, radicati
nella Via, hanno svolto il loro lavoro con le proprie mani.
Come possiamo noi, praticanti inesperti del giorno d’oggi,
rimanere così negligenti nella nostra pratica? Coloro
che ci hanno preceduto hanno detto: 'Il Tenzo realizza
lo Spirito religioso (Bodaishin) rimboccandosi le maniche’" (28)
Così nel
ricevere gli ingredienti dall’amministratore, il Responsabile
delle cucine non deve essere influenzato dalla qualità e
quantità. Scrive Dogen Zenji:
“…Quando
preparate il cibo, non considerate mai gli ingredienti da
una certa prospettiva ordinaria, né pensate ad essi
solo con le vostre emozioni. Mantenete un atteggiamento che
cerca di costruire grandi templi con verdure ordinarie ed
espone l’Insegnamento del Buddha con l’attività più insignificante…” (29)
Nel
capitolo Gyōji dello Shōbōgenzō Dogen
Zenji scrive:
“La
grande Via dei Buddha e dei Patriarchi ci insegna che l’ esercizio
di ogni giorno continua senza fine. Non vi è la minima
separazione tra risveglio della mente ed esercizio quotidiano… Il
potere dell’ esercizio quotidiano protegge noi stessi
e gli altri e pervade cielo e terra, influenzando ogni cosa
con il suo potere; ciò avviene anche se noi non ne
siamo consapevoli. Dunque il nostro esercizio quotidiano
scaturisce dall’esercizio assiduo di tutti i Buddha
e i Patriarchi; è così che possiamo conseguire
la grande Via…”. (30)
E’ evidente, in queste
parole di Dogen Zenji, il ruolo del lavoro nella pratica,
ovvero come Pratica e Realizzazione concidano (Shū Shō Ichinyo).
Attraverso le mani, il gesto
operoso, l’uomo crea secondo
modelli che sono ancestrali, che vengono da lontano, dai
nostri padri, antenati. Dunque un lavoro è santo perché è stato
fatto, pensato, agito, già prima di noi e si fa, avviene,
viene fatto, gesto dopo gesto; questo è Gyōji:
l’operosità del
Buddha.
Dogen Zenji nelle sue opere
richiama continuamente a modello la vita e l’esempio di Patriarchi e Santi,
ma la santità del loro operare non consiste tanto
in un esaltante risultato quanto nella loro capacità di
assumere la Regola nella loro vita.
La loro eccellenza risiede
proprio nel sostenere umilmente, potremmo dire ingenuamente,
la ripetizione nell’esercizio quotidiano.
“…è grazie
all’esercizio quotidiano che il sole, la luna e le
stelle si muovono e che esistono la terra e il vasto spazio,
un corpo e una mente appropriati, oltre che i quattro grandi
elementi (31) e i cinque skandha. (32) ”
“…Non sprecate
tempo; concentratevi solo sul vostro esercizio quotidiano.
Non vivete nell’attesa della grande illuminazione;
la grande illuminazione è l’azione quotidiana, è bere
tè e mangiare riso.” (33)
Vita quotidiana, ordinaria
e regolare, che, attraverso il rito, permette di sintonizzarsi
con l’Ordine Cosmico.
Nel modo in cui tagliamo una
carota in cucina, nel modo in cui puliamo un pavimento, rendiamo
vivo il Buddha e i Patriarchi e l’azione riverbera
nei tre tempi e nelle dieci direzioni.
Cerchiamo di liberare
ogni azione dai nostri specifici bisogni, abbandonando l’arroganza
e l’illusione di pensarci separati dalle altre esistenze,
di pensare che ‘la mano’ sia la ‘nostra
mano’, e comprendendo intimamente che quel che muove
la nostra mano è la Grazia, quell’ ‘amor
che move il sole e l’altre stelle’ .
Quel che
fa muovere i pianeti così come la nostra mano è un
Principio a cui conformarsi ed il conformarsi al Principio è il
modo migliore per essere creativi.
Nel gesto compiuto fino
in fondo, Ippō Gūjin, c’è tutto
il Cosmo e il Cosmo intero è in un solo gesto.
“Quando
un bambino gioca, la sua azione oscura tutto l’Universo,
riempie il cosmo intero…neppure un angolo dell’Universo
rimane fuori di lui.” (34)
Il lavoro come preghiera oltre
che precetto, azione concreta dell’offrire piuttosto
che speculazione intellettuale, come azione liturgica, non
teleologica, un’azione che proprio attraverso la sua
gratuità si connette all’arte e al simbolico
infrangendo la logica del calcolo.
E il lavoro, come esperienza
del corpo, è esperienza originaria e originale.
Oggi
il corpo è diventato oggetto di consumo, dai corpi è ‘estratto’ il
lavoro, consumo, piacere, quanto organi, semi, cellule…
Solo
il lavoro può restituire dignità all’uomo
ed al suo corpo.
Come recita Gabriele D’Annunzio nella ‘Carta
del Carnaro’:
“…L’uomo intiero colui
che sa ogni giorno inventare la sua propria virtù,
per ogni giorno offrire ai suoi fratelli un nuovo dono; il
lavoro, anche il più umile, anche il più oscuro,
se sia bene eseguito, tende alla bellezza e orna il mondo”.
***********************************
NOTE AL LAVORO
(1)
Liberamente tratto da: Gudo Nishijima e Chodo Cross , Master
Dogen’s
Shōbōgenzō,
cap. Gyoji, Windbell Publications, London 1999.
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(2)
Takuhatsu in giapponese, traducibile con ‘Tenere
alta la ciotola’
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(3)
Le sei Paramita o Perfezioni sono: Dana (Fuse in giapp.):
il Dono; Sila (Jikai): la Moralità; Ksanti (Ninni-Ku):
la Perseveranza; Virya (Sho-jin): lo Sforzo, l’Impegno;
Dhyana (Zenjo): la Meditazione; Prajna (Chie): la Saggezza.
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(4) “Zaihō nise
kudoku muryō dambaramitsu kosoku enman”.
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(5) Pratitya-Samutpada,
l’Originazione Dipendente, nucleo essenziale dell’Insegnamento
del Buddha, esprime il rapporto di interdipendenza tra
i fenomeni: ogni fenomeno si manifesta in base a precise
condizioni, ovvero tutto ciò che esiste dipende
da qualcos’altro.
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(6) Sutra, termine sanscrito
il cui equivalente giapponese è Kyō, il significato
originale è ‘filo’ ‘trama’ in
origine utilizzato nel senso di ‘legare insieme’ le
Parole ed i Sermoni del Buddha, proprio perché la
redazione dei primi testi sacri era messa in atto ‘rilegando’ insieme
i testi.
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(7) Questo Sutra è contenuto
nel Samyutta Nikāya che a sua volta appartiene al
Sutra Pitaka. I Tre Canestri che compongono le Scritture
Buddhiste sono: Sutra Pitaka (Canestro dei Sutra), Abhidharma
Pitaka (Canestro dei commentari ai Sutra), Vinaya Pitaka
(Canestro delle regole monastiche).
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(8) Samyutta Nikāya,
Ubaldini editore, Roma, 1998, pp.149-150
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(9) Maestro F.Taiten Guareschi,
da note personali dell’autore.
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(10) Sangha: termine Pali
che indica la Comunità dei fedeli che segue l’Insegnamento
del Buddha, in particolare la comunità monastica.
In origine il termine era utilizzato per definire la corporazione
artigiana, la gilda.
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(11) Maestro F.Taiten Guareschi,
da note personali dell’autore.
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(12) Antonio Barosi, Zen
e Lavoro nell’epoca post-industriale, Occidente Buddhista,
Italian Press Multimedia s.r.l., Milano, Anno II n.14,
Aprile 1997.
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(13) Nirvana o Moksha :
termine sanscrito che significa ‘estinguere’ ‘spegnere’ riferito
al ‘bruciante fuoco dell’illusione’, è condizione
di pace ed armonia quando si abbandona ogni separazione
tra sè e gli altri, tra sè e l’Universo.
La Liberazione articola Trascendenza/Immanenza e Realizzazione.
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(14) Samsara: termine sanscrito
che indica la condizione umana dell’essere intrappolati
nell’esistenza condizionata, agendo sotto l’influsso
dei condizionamenti, privi di autentica libertà.
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(15) Dogen Zenji (1200/1253),
fondatore dell’Ordine Zen Sōtō, autore
dello Shōbōgenzo (“L’Occhio/Visione
del Tesoro della Buona Legge”, opus
magna in 95 capitoli)
e dell’Eihei Shingi (Regola di Eihei-ji, il Tempio
da lui fondato in Giappone).
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(16) Dharma: dalla radice
sanscrita Dhr che ha un’area semantica molto ampia
e che ha tra i suoi molteplici significati quello di: ordine,
rito, verità, diritto, dovere, arte, metodo…Dharma è usato
anche per indicare l’Insegnamento del Buddha storico.
Il Maestro Taisen Deshimaru (1914-1982) traduceva Dharma
anche come ‘Ordine Cosmico’.
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(17) R.Myoren Giommetti,
opuscolo diffusionale raccolta fondi per l’edificazione
del Monastero, Fudenji 2002.
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(18) Fu Zenna: non.contaminazione,
concezione immacolata.
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(19) Liberamente tratto
da: Soko Morinaga, Da Studente a Maestro, Ubaldini Editore,
Roma 2004.
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(20) Gyōji, l’esercizio
continuo, la pratica ininterrotta.
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(21) Dōtoku : Dō, è la
Via, ma anche il parlare, l’espressione. Toku ha
anch’esso due significati: essere in grado di fare
qualcosa e ottenere, afferrare. Dōtoku può essere
pertanto tradotto con ‘avere il potere della parola,
essere in grado di esprimere il vero’.
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(22) Bodhisattva in sanscrito,
Bosatsu in giapponese, è colui che ha risvegliato
in se lo spirito della ricerca religiosa e che si mette
al servizio di tutte le esistenze, perché raggiungano
la liberazione prima di lui stesso.
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(23) Stefano Levi Della
Torre, Zone di Turbolenza, G.Feltrinelli Editore, Milano
2003
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(24) In: l’ombra,
il segreto e Toku: la
benevolenza, la virtù segreta,
il bene fatto segretamente.
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(25) I principali responsabili
del Monastero Zen: l’Abate, il Kansu (amministratore),
il Fusu (economo), il Tenzo (responsabile delle cucine),
lo Shissui (manutentore), l’Ino (supervisore dei
monaci), il Godo (educatore dei monaci).
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(26) vedi nota 22
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(27) Liberamente tratto
da: Dogen-Uchiyama Roshi, Istruzioni
a un Cuoco Zen, Ubaldini
Editore, Roma 1986.
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(28) Op.cit. in nota 27
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(29) Op.cit. in
nota 27
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(30) Liberamente tratto
da: Gudo Nishijima e Chodo Cross , Master
Dogen’s
Shōbōgenzō, Windbell Publications, London
1999.
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(31) Aria, Acqua, Terra
e Fuoco.
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(32) I 5 Skandha o Aggregati
: Forma (Rupa), Sensazione (Vedana), Percezione (Samjna),
Fattori mentali (Samskara), Coscienza (Vijñana),
sono gli elementi condizionati che costituiscono ogni elemento
della realtà.
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(33) Op. cit. in
nota 30
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(34) F.Taiten Guareschi,
in AIZS, Guida allo Zen, De Vecchi Editore, Milano 1991.
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